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Il dibattito pubblico “all’italiana”, mutuato dall’esperienza d’oltralpe del débat public (di cui riproduce i tratti essenziali, pur con alcune licenze creative), rappresenta un «processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico» che riguarda, da un lato, l’opportunità stessa di procedere alla realizzazione di «grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulle città e sull’assetto del territorio» e, dall’altro, la scelta tra più soluzioni progettuali alternative, in un momento in cui la decisione pubblica sull’an e sul quomodo di un determinato intervento risulta ancora in itinere, come tale suscettibile di modificazioni, anche radicali, fino all’estremo della c.d. ipotesi zero (quella che implica un ripensamento totale circa la necessità di dar corso alla realizzazione dell’opera programmata).
Si tratta di uno strumento di democrazia partecipativa, che mira a creare consenso intorno a progetti di opere che potrebbero ingenerare conflittualità sociale una volta cantierati: così favorendo un processo virtuoso di miglioramento della qualità progettuale e prevenendo, attraverso forme di amministrazione condivisa, l’insorgere di contenziosi che, con sempre maggiore frequenza, si accompagnano alla realizzazione delle grandi opere, talvolta compromettendone le sorti.
Il sub-procedimento che ne deriva – all’interno di quello generale consistente nella programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione di una data opera – si giustifica solo per interventi a elevato impatto socio-ambientale, e precisamente per quelli descritti nell’Allegato 1 al d.P.C.M. (infrastrutture stradali, autostradali, ferroviarie, porti, aeroporti, interporti, elettrodotti, condotte idrauliche, impianti, insediamenti industriali e infrastrutture energetiche), che superino determinate soglie di costo (dai duecento ai cinquecento milioni, a seconda delle diverse tipologie) e di dimensione (variabile in funzione delle categorie di opere).
Al ricorrere delle condizioni di cui sopra il ricorso al dibattito pubblico è obbligatorio; allorché invece le soglie di valore economico delle opere da realizzare siano almeno pari a due terzi di quelle contenute nell’Allegato 1, l’attivazione del DP può essere richiesta dalle amministrazioni centrali (Presidenza del Consiglio e Ministeri), dagli enti locali (un consiglio regionale, un consiglio provinciale, un consiglio di una città metropolitana, un consiglio di un comune capoluogo di provincia, un numero di consigli comunali rappresentativi di almeno 100.000 abitanti) o dai cittadini (almeno 50.000 elettori o almeno un terzo dei cittadini elettori per gli interventi che interessano le isole con non più di 100.000 abitanti e per il territorio di comuni di montagna); in ogni altro caso, è sempre possibile per l’amministrazione aggiudicatrice o per l’ente aggiudicatore indire “su propria iniziativa” il DP «quando ne rileva l’opportunità» (art. 3 del d.P.C.M.).
L’avvio del DP ha luogo con la pubblicazione on line del c.d. dossier di progetto dell’opera, «scritto in linguaggio chiaro e comprensibile, in cui è motivata l’opportunità dell’intervento e sono descritte le soluzioni progettuali proposte, comprensive delle valutazioni degli impatti sociali, ambientali ed economici»: da quel momento ed entro i successivi quattro mesi (prorogabili a sei), il dibattito pubblico deve concludersi, seguendo il calendario degli incontri, i temi di discussione e le modalità di partecipazione e comunicazione al pubblico fissati dal c.d. coordinatore del dibattito pubblico (CDP, soggetto terzo operante con responsabilità e autonomia professionale, scelto dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore tra i ranghi dei dirigenti ministeriali), all’interno del c.d. documento di progetto del dibattito pubblico, elaborato dal medesimo coordinatore entro un mese dal conferimento dell’incarico. Scaduti i quattro/sei mesi per lo svolgimento del dibattito pubblico (articolato in incontri di informazione, approfondimento, discussione e gestione dei conflitti, in particolare nei territori direttamente interessati, e preordinato alla raccolta di proposte e posizioni da parte di cittadini, associazioni, istituzioni), il CDP ha trenta giorni di tempo per predisporre una c.d. relazione conclusiva, contenente (i) la descrizione delle attività svolte nel corso del dibattito pubblico, (ii) la sintesi (che deve essere “imparziale”, “trasparente” e “oggettiva”) dei temi, delle posizioni e delle proposte emerse nel corso del DP, e (iii) la descrizione delle questioni aperte e maggiormente problematiche rispetto alle quali si chiede all’amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore di prendere posizione. Posizione che l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore dovrà prendere all’interno di un documento denominato “dossier conclusivo”, in cui vengono esplicitate «la volontà o meno di realizzare l’intervento, le eventuali modifiche da apportare al progetto e le ragioni che hanno condotto a non accogliere eventuali proposte» (art. 7, c. 1, lett. d) del d.P.C.M.) e che deve essere redatto entro i due mesi successivi alla ricezione della relazione conclusiva.
Qual è la valenza del dossier conclusivo, il documento che racchiude gli esiti del DP? Esso costituisce il termine di raffronto e riferimento per tutto quello che, nella procedura di realizzazione dell’opera, si situa “a valle” dell’approvazione del dossier stesso, come risulta dall’art. 9, c. 4 del d.P.C.M. secondo cui «L’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore tengono conto del dossier conclusivo nelle successive fasi e procedure di cui all’articolo 22, comma 4, del codice» (quest’ultimo articolo del Codice stabilendo, a sua volta, che «Gli esiti del dibattito pubblico e le osservazioni raccolte sono valutate in sede di predisposizione del progetto definitivo e sono discusse in sede di conferenza di servizi relativa all’opera sottoposta al dibattito pubblico»).
Numerose le speranze che questo nuovo istituto suscita, sulla base di una regolamentazione complessivamente apprezzabile, pur con qualche non trascurabile difetto: dall’attribuzione del compito di selezionare il CDP alla stessa stazione appaltante (anziché, come forse sarebbe stato preferibile, per salvaguardarne l’indipendenza di giudizio, all’ANAC, sulla falsariga di quanto oggi previsto per le commissioni giudicatrici negli appalti e concessioni sopra soglia secondo il criterio di aggiudicazione dell’OEPV) al mancato raccordo con gli istituti, omologhi al dibattito pubblico, previsti da alcune leggi regionali (come la l.r. Toscana n. 46/13, la l.r. Emilia-Romagna n. 3/10, la l.r. Umbria n. 14/10, la l.r. Puglia n. 28/17, impugnata, quest’ultima, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri quanto all’art. 7 contenente la disciplina del dibattito pubblico e, nel momento in cui si scrive, ancora sub judice).
Sarà l’esperienza applicativa a conformare (e contornare) l’istituto in parola, che abbisogna di essere “tratto in vita” dal dato astratto della norma puntuale. Ammesso e non concesso che di “grandi opere” ancora sia prevista, per il futuro, la realizzazione in Italia.