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Cultura e paesaggio: un principio di diritto “nascosto”
Concentrare l’attenzione sul diritto dei beni culturali e del paesaggio potrebbe sembrare opera meramente speculativa e quasi didascalica. Lo confermano le offerte formative delle Università (in cui la materia è meramente opzionale o addirittura assente), la poca risonanza che riceve tale area del diritto, e l’elitarietà degli operatori legali in tale settore.
Eppure, l’attenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale, non è solo una species del diritto pubblico e amministrativo, ma si rintraccia, con caratteri di autonomia, già fin dall’antica Roma.
Il cuore spesso non visibile di tale branca del diritto, si sostanzia nell’essere una materia strettamente connessa al concetto di responsabilità.
I Padri Costituenti, hanno delineato una responsabilità della Repubblica, alla promozione e allo sviluppo della cultura e alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, tale, da ricomprenderla tra i principi fondamentali della Nazione.
Il diritto culturale, dunque, non è una “sconosciuta nicchia giuridica”, ma è un inderogabile e intangibile principio dell’ordinamento. È, cioè, un valore pari all’uguaglianza e alla libertà.
Eco ne è la considerazione che, la Corte Costituzionale, dalla convergenza degli articoli 9 e 32 della Legge Fondamentale, abbia enucleato il “primario e assoluto diritto dell’ambiente”.
Mai come in questi tempi, infatti, è interesse della collettività a che il palcoscenico della propria esistenza, sia tutelato.
Una cartina di tornasole
La parola tutela, cardine di tale materia, tuttavia, molto spesso spaventa. Le nozioni di vincolo, conservazione, valorizzazione e responsabilità, si associano ad una limitazione di libertà, ad una privazione di diritti (primo fra tutti, di proprietà). Eppure, conoscendo meglio il substrato del diritto paesaggistico, si può evincere che la Consulta si stia esprimendo in senso contrario. I più recenti arresti della giurisprudenza costituzionale, infatti, ribadiscono che disciplina vincolistica non sia sempre sinonimo di immodificabilità assoluta e aprioristica[1].
Altro paradosso in cui frequentemente si imbatte chi si occupa di tale materia, è quello di un mondo che desidera sempre più persone responsabili ma che, al contempo, è in continua ricerca di estensioni dei confini dell’irresponsabilità. Si sente l’esigenza di una cultura, di un paesaggio, di un ambiente, sempre più fruibili, ma che, parallelamente, non richiedano manifeste restrizioni del personale arbitrio. Le Regioni stesse, talvolta, in nome della loro autonomia, contestano l’esercizio della tutela di matrice statale[2].
Questi, sono solamente alcuni esempi delle innumerevoli riflessioni che dal diritto dei beni culturali e del paesaggio possono scaturire.
A parere di chi scrive, tale materia, nella sua settorialità, si presta ad essere specchio dell’annoso rapporto intercorrente tra cittadini e diritto. È un’area giuridica, cioè, che può fungere, ove analiticamente esaminata, da cartina di tornasole delle esigenze dei nostri tempi.
Sulla considerazione, poi, che l’Italia vanti il 50% del patrimonio artistico mondiale, è indubbio che tale branca del diritto sia destinata ad avere una rilevanza ed una utilità sempre più concrete. E, ciò, anche in termini meramente economici.
Conclusioni: una quaestio per il giurista
Se, dunque, il diritto dei beni culturali e paesaggistici è un principio fondamentale della Repubblica, ed è specchio degli attuali bisogni della Nazione, è opportuno venga riconsiderato nella sua autonoma ontologia.
La celebre frase di Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo” non è certamente invocabile dagli operatori giuridici. La contemplazione del patrimonio non è sufficiente ad assolvere i giuristi da ogni responsabilità. È richiesto un impegno diretto e maggiormente partecipato in tale materia, in quanto è continua fonte di diritti, obblighi, doveri ed impegni. Si pensi, a titolo di mero esempio, all’estensione dei confini dell’etica di responsabilità ambientale: ai sensi della Comunicazione n. 681 del 25 ottobre 2011 UE, si è costruito il concetto di responsabilità sociale d’impresa.
In tale materia, infatti, l’etica è il motore. Salvatore Settis, in una sua celebre opera, suggeriva l’introduzione di un giuramento etico “di Vitruvio”, al pari di quello di Ippocrate previsto per i medici, al fine di responsabilizzare, anche moralmente, la figura professionale dell’architetto[3]. Ebbene, sorge spontaneo l’interrogativo. Il tecnico del diritto, guidato dal fuoco di Dikè, perché sente ancora così flebile il richiamo etico della materia che vivifica e tutela il territorio? Non è forse vero che un giurista, e, ancor più, un avvocato, abbiano voluto svolgere la professione, proprio per fare la cosa giusta?
[1] Ex plurimis, Corte Cost., 03.03.2021, n. 29
[2] Corte Cost., 22.07.2021, n. 164
[3] Salvatore Settis, Se Venezia muore, Vele, 2014