12 Agosto 2022

Rapporto tra art. 9 e 51 del codice deontologico forense: l’attività difensiva non deve sfociare in affermazioni offensive

STEFANO NARDELLI

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Abstract

Il presente elaborato consiste in un parere in materia di deontologia forense valutato da una commissione di avvocati come migliore nel corso di un evento organizzato sinergicamente da ELSA Messina e dalla Camera Penale “Pisani-Amendolia” della medesima città.

 

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TRACCIA

Tizia, sposata con Caio, presentava denuncia-querela nei confronti del marito evidenziando che questi, nel corso degli ultimi anni di convivenza, aveva posto in essere condotte integranti il reato previsto e punito dall’art. 572 c.p. (Maltrattamenti contro familiari e conviventi) che le avevano cagionato lesioni sia fisiche che morali, causandole un profondo stato di prostrazione, acuito dal sopraggiungere di una grave malattia a cagione della quale doveva sottoporsi a cicliche sedute di cure. Tizia, inoltre, poco tempo prima aveva promosso un giudizio di separazione chiedendone l’addebito al coniuge.  

Il pubblico ministero, non ritenendo integrato il reato, avanzava richiesta di archiviazione al giudice.

Tizia si rivolgeva all’avvocato Mevio al quale affidava l’incarico di proporre l’opposizione alla richiesta di archiviazione.

Caio affidava la sua difesa all’avvocato Sempronio il quale redigeva una memoria in cui, tra l’altro, scriveva <<chi ha un male incurabile non sopravvive tutti questi anni e non si presenta in tutti i giudizi così gagliarda e pimpante a perorare la propria causa, perché non ne avrebbe le forze, ma si prepara ad affidare l’anima a Dio, confidando nel suo generoso perdono>>.

Tizia, ritenendo gratuitamente offensiva la frase, posto che il suo stato di salute era noto al marito e al legale, si rivolgeva all’avvocato Mevio affinchè valutasse anche la sussistenza di profili di responsabilità deontologica in capo all’avvocato Sempronio.

Il corsista, assunte le vesti del legale Mevio, rediga motivato parere in merito alla sussistenza o meno della violazione di cui all’art. 52 del Codice Deontologico Forense (Divieto di uso di espressioni offensive o sconvenienti) e anche dell’art. 9 (Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza), o se possano essere invocate, nel caso di specie, cause di giustificazione o la scriminante prevista dall’art. 598 c.p.

 

SVOLGIMENTO

Nella questione prospettata risulta integrata la violazione degli artt. 9 e 52 del Codice Deontologico Forense, non essendo peraltro applicabili esimenti.

Partendo dalla norma di carattere generale, ovvero dall’art. 9, si evidenzia come l’avvocato è tenuto nella vita di tutti i giorni e, soprattutto, nello svolgimento dell’attività professionale, a mantenere una condotta impeccabile nonché, in particolare, ad agire sempre con “indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza”. Questa norma, che dovrebbe fungere da faro per ciascun Avvocato e che di per sé permetterebbe, se rispettata, ad evitare qualunque sanzione disciplinare, risulta violata dalla condotta dell’avv. Sempronio che appare assolutamente indecorosa, lesiva della altrui dignità e gratuitamente offensiva.

L’art. 52, invece, impone all’avvocato di “evitare espressioni offensive o sconvenienti negli scritti in giudizio e nell’esercizio dell’attività professionale nei confronti delle controparti. Anche questa norma risulta evidentemente violata, in ragione di quanto espresso dalla Giurisprudenza di legittimità, la quale evidenzia che «ai fini della responsabilità disciplinare dell’avvocato, le espressioni sconvenienti od offensive vietate dall’art. 52 cdf (già art. 20 codice previgente) rilevano di per sé, a prescindere dal contesto in cui sono usate e dalla veridicità dei fatti che ne sono oggetto» (Cass. Sez. Un. del 2021 n. 10852).

Le cause di giustificazione, inoltre, non sono in grado di salvarne la posizione disciplinare. In particolare, l’ipotesi di non punibilità di cui all’art. 598 c.p., non risulta applicabile al caso concreto non essendo integrato il requisito di cui al comma 1, ovvero che gli scritti presentati dai patrocinatori dinnanzi all’Autorità giudiziaria siano concernenti l’oggetto della causa. Nella frase controversa, come si vedrà, l’avv. Sempronio non fa altro che colpire sul personale la controparte in merito ad una grave patologia clinica incorsa successivamente ai fatti controversi, ma che rimane estranea e separata da questi ultimi. Il collega, ai fini dell’applicazione della scriminante, avrebbe dovuto piuttosto limitarsi a contrastare, anche in maniera veemente e forte, la parte offesa in merito ai dibattuti maltrattamenti.

Vero è che Sempronio attacca Tizia che è controparte processuale, ma le doglianze non attengono all’oggetto della controversia e, pertanto, non sono pertinenti oltre che offensive.

Per giurisprudenza costante della Suprema Corte e del Consiglio Nazionale Forense è necessario, ai fini dell’applicazione della scriminante in esame, che le affermazioni concernano l’oggetto della causa (ex multis: C.N.F. sentenza del 21 febbraio 2014, n. 20; Cass. pen. del 2011 n. 22743). Risulta essere però particolarmente calzante, rispetto al caso in esame, una pronuncia della Corte di Cassazione che ha escluso la ricorrenza della scriminante in relazione a frasi calunniose pronunziate dall'imputato all'indirizzo del P.M. in udienza, senza alcun collegamento con specifiche argomentazioni difensive. Questa ha statuito che «l'applicabilità della scriminante di cui all'art. 598, comma primo, c.p., presuppone che le espressioni offensive concernano, in modo diretto ed immediato, l'oggetto della controversia, rilevino ai fini delle argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata e siano adoperate in scritti o discorsi dinanzi all'autorità giudiziaria» (Cass. pen. del 2016 n. 33262).

Con il primo periodo, Sempronio, dichiara che «chi ha un male incurabile non sopravvive tutti questi anni e non si presenta in tutti i giudizi così gagliarda e pimpante a perorare la propria causa, perché non ne avrebbe la forza». Il richiamo al male incurabile rimanda a qualcosa di diverso rispetto alle lesioni fisiche e morali patite da Tizia a seguito dei maltrattamenti, soprattutto in quanto Caio e Sempronio erano a conoscenza del sopraggiungere della grave malattia della moglie, dovendo la stessa sottoporsi a cicliche cure.

Assodato ciò, oltre che alla natura chiaramente sconveniente della dichiarazione precedente, la seconda affermazione, ovvero che Tizia si sarebbe dovuta piuttosto preparare «ad affidare l’anima a Dio, confidando nel suo generoso perdono», sottolinea la scarsa qualità del contraddittorio a cui si è giunti. Sempronio, con questa seconda affermazione, esterna un giudizio morale e/o religioso che non gli compete. Ciò non trova conforto neppure nella prassi processuale che tollera giudizi penali colorati da una dialettica anche aspra ed a tratti sopra le righe, ma che non può mai scadere nell’attacco personale.

Non sono neppure applicabili al caso concreto le cause di giustificazione di cui agli artt. 46, 48, 88, 96, 649, 50, 54 c.p. non essendo stati compiuti delitti.

La sanzione che conseguentemente si dovrebbe applicare ex art. 52 c. 3 cdf è la censura. Questa consiste nel biasimo formale che si applica quando la gravità dell’infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato e il suo comportamento successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un’altra infrazione. Il Consiglio Distrettuale di Disciplina però, avendo una certa discrezionalità discendente dal combinato disposto degli artt. 21 e 22 cdf, potrà applicare una sanzione compresa tra l’avvertimento e la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale non superiore a un anno.

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