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Neminem inficere: la responsabilità civile dell’untore
La diffusione del virus SARS Covid-19, in assenza di evidenze scientifiche, si è manifestata attraverso un’elevata contagiosità e un’incontrollata trasmissione, perlopiù involontaria, verso larghe fette della popolazione. Sorvolando sugli aspetti penalistici della questione, relativi cioè all’accertamento di eventuali condotte commissive od omissive che hanno aggravato la propagazione dell’epidemia, questo modesto contributo mira ad esaminare gli estremi di una responsabilità di natura civile dell’autore materiale del contagio. In altre parole, occorre domandarsi: si potrebbe ipotizzare di attribuire una responsabilità extracontrattuale in capo a coloro che abbiano contributo in via diretta a trasmettere il virus? Una risposta affermativa risulterebbe scolasticamente corretta. In primo luogo perché la categoria del danno da contagio, nelle differenti varianti legate alle emotrasfusioni od alla trasmissione del virus HIV, è ormai ben nota agli interpreti. Un’estensione dei principi elaborati dalla giurisprudenza con riferimenti a tale casistica non sembrerebbe inammissibile. In secondo luogo, il carattere di atipicità degli illeciti civili consente di ricomprendere nell’alveo della tutela aquiliana qualsiasi comportamento lesivo dell’altrui interesse, ancorché non positivizzato dal legislatore, purché ricorrano i requisiti delineati all’art. 2043 c.c. Tuttalpiù l’accesso ad una tutela aquiliana, anche in presenza di fenomeni epidemici, non costituisce un automatismo. La riflessione deve tener conto della straordinarietà del contesto, della imprevedibilità della circolazione alla luce delle attuali conoscenze virologiche. Deve, inoltre, parametrare l’accertamento degli elementi i basilari del danno extracontrattuale agli specifici connotati del virus. Pertanto, solo analizzando partitamente i presupposti dell’art. 2043 è possibile fondare una responsabilità per contagio da Covid-19.
Coefficienti soggettivi del danno
Nella commissione del fatto illecito l’autore deve essere assistito da un particolare elemento psicologico: dolo o colpa. L’illecito doloso si caratterizza per una piena adesione volontaristica dell’agente. Nel nostro caso, ad esempio, sarebbe dolosa l’azione di chi, conscio della sua positività ad un tampone, decide scientemente di infettare un terzo. Il concetto di colpa[1], invece, presuppone l’inosservanza di una regola cautelare di condotta. Indubbiamente potrebbe essere considerata colposa la condotta di chi, violando il regime di quarantena, causa l’infezione di terzi soggetti. Analoga considerazione potrebbe farsi per il mancato utilizzo di dispositivi di protezione personale durante la piena propagazione del virus. E per gli asintomatici? Non par dubbio che la trasgressione delle regole di distanziamento sociale integri comunque i profili della colpa. Controversa è invece l’attribuzione di una responsabilità in capo a coloro i quali, asintomatici o meno nel momento in cui vi era modesta contezza dell’epidemia, abbiano trasmesso il virus attraverso delle condotte non intenzionali. A ben vedere la problematica non afferisce all’assenza di coefficienti psicologici del danno, bensì all’accertamento del nesso di causalità tra comportamento ed evento. Saremmo, cioè, dinanzi ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva?
Il nesso di causalità
L’evento dannoso deve essere conseguenza diretta dell’azione o dell’omissione dell’agente. Nel caso di specie si deve verificare se, avvalendosi del criterio del “più probabile che non”, la condotta rappresenti l’antecedente causale dell’infezione. Inoltre, secondo la teoria della causalità adeguata, a cui aderisce la giurisprudenza maggioritaria, l’evento deve consistere in una conseguenza prevedibile ed evitabile sulla base delle comuni regole di esperienza. Ciò posto, appare eccessivo addebitare una responsabilità a coloro che abbiano contribuito a trasmettere il virus nel periodo in cui non sarebbe stata pronosticabile una tale evoluzione della pandemia. Non saremmo nemmeno nel campo della responsabilità oggettiva. Il nesso di causalità, infatti, pur costituendo condicio sine qua non dell’evento, si interrompe se il danno ne rappresenta una conseguenza del tutto atipica. Diversa è l’ipotesi in cui, avendo piena consapevolezza delle generiche modalità di trasmissione del virus sulla base dei casi clinici accertati, la condotta sia pericolosa a tal punto da cagionare l’evento dannoso. Il problema si sposta allora su un altro profilo, ossia sulla probabile sussistenza di una pluralità di concause. A provocare il danno potrebbero concorrere ulteriori cause naturali, come altre patologie di cui è affetto il danneggiato; oppure, questi potrebbe essere entrato in contatto con differenti soggetti, risultati successivamente positivi. Potrebbe il danneggiato agire contro tutti i potenziali untori, obbligati in solido, non potendo identificare l’autentico autore del contagio? La risposta dovrebbe essere teoricamente affermativa, quantunque la schiera dei coobbligati possa astrattamente risultare numerosa. Oppure l’obbligo risarcitorio grava unicamente sul primigenio untore? L’accertamento della c.d. causalità naturale appare un’operazione alquanto difficile, che rischia di compromettere l’imputazione oggettiva dell’evento.
Il danno
Elemento essenziale ai fini dell’ascrizione di una responsabilità extracontrattuale è la presenza di un danno. Occorre interrogarsi su quale sia il danno verificabile nel caso di specie, e se questo sia finanche risarcibile. Secondo il quadro nosografico finora delineato, l’infezione da Covid-19 può provocare varie patologie, da banali debilitazioni, a disfunzioni dell’organismo più gravi, financo la morte. Indubbiamente la causazione di una menomazione fisica grave è pienamente risarcibile a livello patrimoniale, ricomprendendo sia il danno emergente che il lucro cessante. Ed il danno non patrimoniale? A ben vedere l’unica ipotesi profilabile potrebbe concernere la risarcibilità del danno biologico eventualmente sofferto, purché la lesione non sia di lieve entità o di portata bagatellare. Molto più sfumata è l’ammissibilità del danno tanatologico, su cui la giurisprudenza mantiene ancora posizioni ondivaghe. Cionondimeno, è altamente probabile che, alla luce dell’elevato numero di decessi, la questione sarà posta nel giudizio di legittimità. Infine, sarebbe possibile prospettare in un danno nei confronti di soggetti contagiati, ma che non abbiano ricevuta alcun nocumento tangibile? Si potrebbe ipotizzare che un soggetto, che non abbia patito alcun danno fisico, ma sia stato vincolato dal presunto contagio in un regime di quarantena obbligatoria, possa soffrire un pregiudizio in ordine al mancato conseguimento di un vantaggio economico. La questione, puramente accademica, in realtà pertiene all’ampio tema del danno da perdita di chance.
Considerazioni conclusive
Nonostante la tematica sia scevra di certezza normativa e carente di pronunce giurisprudenziali, il proposito di questa breve disamina è stato quello di inquadrare gli estremi di una responsabilità civile da contagio da Covid-19. Le decisioni rese dai tribunali, specie in sede di legittimità, paleseranno l’approccio della giurisprudenza su questa inedita materia. In conclusione, argomentando sui presupposti delineati dall’art. 2043 c.c, solamente l’acquisizione di maggiori evidenze scientifiche permetterà una maggiore fermezza nell’accertamento del nesso di causalità. A mio giudizio, tuttavia, l’elemento decisivo e probante non potrà che essere la sussistenza degli estremi della colpevolezza: dovendosi necessariamente virare, alla luce dell’emergenza economico-sanitaria, verso una tendenziale soggettivizzazione della responsabilità per contagio da Covid-19.
[1] Art 43 comma 3 c.p: “il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.