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Premessa maggiore: La sostenibilità come forma mentis di una generazione
Negli ultimi anni, si è affacciato al panorama mondiale, un concetto, quello di sostenibilità, che ha assunto connotati pervasivi. A fronte di un mondo in continua evoluzione, si è cominciato a percepire che il divenire, per lungo tempo inteso nella sua sola declinazione positiva, ovverosia in termini di progresso, presenta altresì, una declinazione negativa, intesa come regresso/derelizione/consumazione. I campi in cui tale involuzione è più macroscopicamente evidente sono l’ambiente e la società. Pertanto, si è cominciato a parlare sempre più di ESG. Ci si è accorti, cioè, che, non esistendo la stasi nell’ontologia delle cose, fosse necessario interessarsi alla flessibilità e alla variabilità come criteri di ispirazione e di tutela per il futuro.
Con una similitudine in termini civilistici, si direbbe che si è cercato di costruire, tramite la formazione del concetto di sostenibilità, un rimedio analogo al beneficio di inventario, strumento con il quale, l’erede può sottrarsi ad una responsabilità ultra vires di una damnosa hereditas. Le nuove generazioni, infatti, erano e sono, gravate di una responsabilità sempre più ampia rispetto ai loro predecessori.
Proprio una tale etica consapevolezza, ha sospinto la formazione di una coscienza sostenibile. Una vera e propria forma mentis, che avrebbe dovuto orientare, e che oggi sempre più orienta, le scelte future. La necessità di un tale nuovo approccio, ha fatto sì che a interessarsi di sostenibilità non fossero più soltanto i gestori di risorse scarse e gli investitori, ma, altresì, tutti i fruitori di beni rivali ed escludibili. Ma il processo ha inevitabilmente coinvolto ogni aspetto della vita sociale, lavorativa, produttiva, persino familiare, e, pertanto, è doveroso, oggi, affacciarsi a tali realtà con la lente della sostenibilità.
Premessa minore: Gli albori della professione forense
L’ultimo rapporto Censis sull’avvocatura ha prestato il fianco allo svolgimento di qualche accorata riflessione sulla professione forense declinata in termini sostenibili, specie per un giovane laureato in giurisprudenza.
Ci si è interrogati, dunque, circa l’odierna sostenibilità del percorso giuridico per un giovane interessato a intraprendere una tale carriera. La passione o il sogno per la professione, sono, indubbiamente, ciò che spinge un giovane neo-diplomato ad intraprendere il lungo percorso in legge. La volontà e l’interesse per la materia guidano il giovane nei cinque impegnativi anni di studio, tuttavia, la facilità nel raggiungimento di obiettivi e soddisfazioni è di molto posticipato rispetto alle aspettative.
Infatti, una laurea in puntuale rispetto dei tempi accademici (conseguita, cioè, a 24-25 anni), si scontra con la lunghezza e l’insidiosità del percorso post lauream. I diciotto mesi di pratica, ancora troppo spesso non retribuiti o compensati da un simbolico rimborso spese, la “stasi” per il conseguimento dell’abilitazione dilatata su di un intero anno solare, comportano che il, sebbene brillante, laureato 25enne, possa dirsi pronto ad approcciarsi scientemente alla professione solo a partire dai 27-28 anni. A confronto con altre categorie di laureati, certamente, questo è sperequato. Probabilmente, questo può, altresì, disincentivare un soggetto ad intraprendere una tale carriera.
Non si dubita tuttavia che la soddisfazione di poter esercitare la professione colmi ogni sacrificio. Personalmente si crede che quasi la totalità dei laureati in legge, nonostante le materiali angustie, rifarebbe la stessa scelta. Ancora oggi, al pari dei nostri predecessori, si sceglie di svolgere la professione, per passione e per volontà, ma soprattutto, per la sua essenza.
Conclusione: la professione forense è sostenibile?
Tuttavia, ricollegandosi alla premessa maggiore con cui si è aperta questa breve e sillogistica riflessione, se l’ESG, specie nella sua componente social, ha pervaso le più attuali prospettive, ci si chiede se l’approccio alla professione forense, dunque, sia ancora sostenibile.
In altri termini, ci si interroga se la professione forense, agli albori del suo essere, ovverosia per un giovane laureato, sia stata effettivamente permeata da quella “umanizzata” S che compone l’ESG.
Nel panorama comparatistico non mancano esempi di approcci indubbiamente sostenibili. L’Unione Europea, in particolare, incoraggia sempre più in tale direzione. Altrettanto può dirsi per i grandi e prestigiosi studi legali che con sempre maggior favore abbracciano l’efficienza sostenibile. Le realtà più cangianti, hanno compreso che è opportuno e doveroso investire in una professione slegata dagli anacronistici e monolitici paradigmi, in cui per anni la professione è stata ancorata. Gli esempi e gli spunti, dunque, non mancano. Tuttavia, può ritenersi che una tale visione sia stata adottata in modo uniforme e generalizzato nell’intero panorama professionale italiano? Si può affermare che l’entrata nel cuore della professione, per un giovane praticante, sia sostenibile in ogni realtà del nostro ordinamento? È un approccio, quello sostenibile, che ha fatto breccia solo in una puntinato sistema di realtà eccellenti o ha coinvolto in modo indifferenziato la classe forense?
Si lasciano aperti, alle istituzioni e ai professionisti, gli interrogativi. Offrendo uno spunto di riflessione, in qualità di “nuova leva”, si auspica che l’avvocato non sia più soltanto un brillante e competente Azzecca-garbugli, ma si apra ad una professione sempre più sostenibile in tutte le sue forme e in tutte le sue articolazioni. Questo, non solo per un imperativo etico o deontologico, ma anche in forza del combinato disposto di cui agli articoli 357 e 359 c.p. Non si dimentichi, infatti, che il professionista legale è detentore di una posizione di garanzia per il buon andamento dello Stato globalmente inteso.