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Cos’è lo “sportwashing”?
Sportwashing è un termine che di recente ha riempito e riempirà sempre di più testate e siti d’informazione. Prima di capire il perché, è necessario soffermarsi sulla sua origine e sul suo significato, cercando di introdurre anche una nuova connotazione al vocabolo stesso. Questa parola fu coniata nel 2015 dall’attivista di Reporters sans frontières Rebecca Vincent, la quale ha definito questo fenomeno come “Utilizzare lo sport per ripulirsi l’immagine e distogliere l’attenzione da altri problemi ben più gravi, come la sistematica violazione dei diritti umani per ragioni politiche, religiose, etniche o di genere”. Lo sportwashing può sostanziarsi in svariate attività, ad esempio l’organizzazione di eventi, l’acquisto o la sponsorizzazione di squadre o scuderie, il finanziamento a Federazioni Internazionali Sportive e ai loro progetti, ma esistono alcuni elementi che contraddistinguono il fenomeno in modo lapalissiano: il collegamento con il mondo dello sport e un’immagine politico/sociale da “ripulire”.
Tale pratica ha assunto rilevanza macroscopica grazie ai Mondiali di calcio 2022 assegnati al Qatar, paese che non solo non vantava una grande storia calcistica, ma mancava delle infrastrutture necessarie e, soprattutto, si presentava e presenta in forte contrasto con i valori di uguaglianza, libertà e dignità della persona umana, capisaldi inscalfibili di uno stato civile. Come se ciò non bastasse, a questo già ricco sostrato di base, si sono aggiunti una serie di scandali che hanno messo in luce il riprovevole sistema di corruzione e omertà di cui si serve la politica internazionale dello stato qatariota. Partendo dalle presunte tangenti pagate per ottenere l’assegnazione dei Mondiali, passando alle migliaia di morti sul lavoro di cui ancora si sa troppo poco, continuando con i consumi causati da un evento che di sostenibile non ha assolutamente nulla e finendo con gli scandali che hanno coinvolto dapprima la Francia e il suo presidente ed ora stanno, come in un domino, arrivando a colpire le più alte sfere europee. È notizia di questi giorni l’indagine per corruzione, riciclaggio di denaro e partecipazione a un'organizzazione criminale che ha portato alla destituzione della vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili (tra gli altri). Ormai ci si riferisce a questo scandalo, che andrà ad allargarsi giorno dopo giorno, come Qatargate 2022. Esso rappresenta, senza ormai alcun dubbio, il più grande fenomeno di sportwashing mai verificatosi nel mondo dello sport.
Questo fenomeno però non va visto come isolato e singolare, è da molto tempo ormai che questi fenomeni permeano il mondo dello sport in generale. Basti pensare al motorsport, nel quale paesi dediti allo sportwashing sono ormai promoter fissi di eventi. Un esempio è rinvenibile nel campionato mondiale di F1 2023, in cui ben 4 gare si terranno in paesi che ormai fanno dello sportwashing un uso indiscriminato, tra gli altri: l’Arabia Saudita e proprio il celebre Qatar summenzionato. Altro esempio è l’annuncio, avvenuto in questi giorni, dell’inserimento nel Mondiale Endurance di una gara proprio in Qatar. L’elenco potrebbe continuare all’infinito ma quanto enucleato può bastare per rendere la gravità e la diffusione del fenomeno.
Sportwashing: un’accezione più ampia
Quando si parla di sportwashing, così come definito dalla creatrice di questo neologismo, si pone il focus solo sullo stato che utilizza tale pratica. Il termine in questione merita di abbracciare una fenomenologia più ampia. Bisogna rammentare che questi paesi utilizzano queste strategie per ripulire la loro immagine, ma, d’altro canto, ciò avviene grazie all’aiuto di Federazioni e Istituzioni che dovrebbero promuovere valori di sportività, onestà e rispetto della dignità umana. Questo tipo di discorso sarebbe stato meno accettabile negli anni in cui era prassi comune considerare lo sport come distante da qualsiasi spinta etica o morale, così come descritto dall’ex patron della F1 Bernie Ecclestone, il quale aveva dichiarato che “lo sport non deve mescolarsi con la politica”. Oggi però lo sport si è schierato apertamente con valori moderni e necessari come l’uguaglianza, il rispetto e la sostenibilità. Questa presa di posizione però finisce per essere in totale contrapposizione con gli interessi economici sottesi alle scelte prese da chi si trova a capo di questo sistema. Un esempio lampante si è verificato durante il Gp di Formula 1 di Jeddah, Arabia Saudita, del 2021, quando un bombardamento colpì una centrale petrolifera poco distante dal circuito e si assistette ad una scena emblematica di questo irriducibile dualismo: vetture di formula uno che sfrecciavano su un circuito il cui sfondo era un pozzo petrolifero in fiamme.
Chiaro è che il termine sportwashing non dovrebbe riferirsi solo ai paesi che sfruttano lo sport come mezzo per l’espiazione di colpe e peccati, ma bensì dovrebbe conglobare anche quelle istituzioni che con la loro connivenza finiscono per macchiare indelebilmente l’etica di pratiche che dovrebbero innalzare e non far involvere l’essere umano.
Come eliminare lo sportwashing?
Criticare una pratica riprovevole è sicuramente necessario, ma ciò si trasforma in un mero esercizio di stile se non si propongono soluzioni atte ad evitare la ripetizione di questi fenomeni. Una delle soluzioni di maggior efficacia potrebbe essere quella di costituire un “Comitato Etico Indipendente”, il quale dovrebbe vegliare sulle decisioni prese dalle Federazioni Internazionali e da chi, ad esse, è sottoposto. Tale organismo dovrebbe avere inoltre il potere di svolgere una funzione di indagine attenta attraverso strumenti di due diligence in ogni occasione in cui si sospettino fenomeni di sportwashing, in maniera prodromica rispetto alla conclusione di qualsiasi accordo, insomma una permutazione in piena regola di uno strumento previsto e utilizzato ampiamente in ambito corporate. L’introduzione di questo sistema sicuramente porrebbe un forte freno a un fenomeno che non può che esemplificare un fallimento per lo sport e la sua eticità.