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La riforma del 2003 e le S.p.a.
L’istituto del recesso, nel diritto societario, è stato oggetto di un progetto di rivitalizzazione attuato con la riforma del 2003[1], la quale, pur rafforzandolo, ha evidenziato numerose problematiche suscitando così un fervente dibattito in dottrina e giurisprudenza.
Nonostante i cospicui studi ed approfondimenti, ancora oggi sussistono questioni di difficile risoluzione, che rendono ardua la comprensione dell’istituto; difficoltà derivanti, senza ombra di dubbio, dall’utilizzo di dati testuali non univoci e poco chiari, dalla complessità del diritto di recesso e dalla molteplicità degli interessi da esso coinvolti.
Una delle principali problematiche attiene alla definizione dei criteri di determinazione della quota di liquidazione spettante al socio recedente; essa è più marcata nelle S.p.a. in forza della pluralità degli interessi coinvolti e del conflitto che tra gli stessi sorge.
Difatti, l’interesse del recedente ad ottenere una valutazione che rifletta il valore delle azioni si contrappone a quello degli altri azionisti ad impedire una ipervalutazione della quota spettante al socio uscente nonché a quello dei creditori di evitare il depauperamento del patrimonio sociale.
Difatti, una non corretta determinazione della quota di liquidazione potrebbe perturbare i rapporti interni alla compagine sociale in quanto, ad esempio, un valore troppo elevato favorirebbe il socio uscente, mentre uno troppo basso arricchirebbe ingiustificatamente gli altri soci[2].
Da qui deriva l’esigenza di individuare criteri che permettano di determinare compiutamente il reale valore delle azioni.
Il codice prevede un differente modello di determinazione della quota di liquidazione, a seconda che si tratti o meno di una S.p.a. con azioni quotate in un mercato regolamentato.
Questo sistema del “doppio binario” trova fondamento nel diverso oggetto del procedimento di liquidazione nelle due società; difatti, nelle S.p.a. non quotate l'azione viene qualificata come partecipazione, mentre nelle S.p.a. quotate viene qualificata come bene autonomamente negoziabile.
La valutazione della quota di liquidazione nelle S.p.a. non quotate
Il modello normativo previsto nelle S.p.a. non quotate è a struttura elastica, in quanto il valore è determinato non mediante un mero calcolo matematico, ma attraverso una complessa attività degli amministratori, risultando rimessa alla loro discrezionalità la scelta circa l’adozione e l’applicazione dei criteri più idonei.
La norma di riferimento è l’art. 2437 ter, secondo comma, c.c., il quale dispone che “il valore di liquidazione delle azioni è determinato dagli amministratori, sentito il parere del collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione legale dei conti, tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni”.
Lacune normative e determinazione del valore di disinvestimento
Dalla mera lettura della norma si evidenzia una deficienza di fondo, rilevabile nel fatto che essa non indica espressamente il nuovo valore al quale si deve fare riferimento.
Difatti, l’art. 2437 ter c.c. utilizza un concetto di “valore” del tutto generico ed atecnico; e ciò è proprio la ragione dei principali problemi che sorgono in tema di recesso nelle S.p.a. non quotate e, in particolare, in ordine alla determinazione del valore delle azioni.
I numerosi dubbi e perplessità esistenti in proposito possono trovare adeguata soluzione solo mediante la esplicitazione dei punti cardinali che definiscono ogni valutazione (data di riferimento della valutazione; l'unità di valutazione; la configurazione di valore ricercata; gli approcci valutativi da seguire) in quanto la loro mancanza non solo comporta l'indeterminatezza ex ante del processo di valutazione, ma aumenta anche ex post il rischio di arbitrio degli amministratori, i quali, a seconda del criterio prescelto, possono conseguire esiti disparati.
Da qui consegue la necessità di delimitare la discrezionalità concessa agli amministratori e di definire i criteri applicabili per la determinazione della quota.
Utile a tal fine risulta il riferimento al tenore letterale dell’art. 2437 ter, secondo comma, c.c., nella parte in cui menziona il “valore di mercato delle azioni”.
Il legislatore con questa espressione non solo ribadisce che l’individuazione del valore reale delle azioni è l’obiettivo principale dell’operazione di valutazione, ma chiarisce, inoltre, che essa non deve arrecare un pregiudizio al socio uscente.
Gli amministratori, dunque, sono tenuti ad adottare criteri che permettano di individuare un valore che contemperi i vari interessi coinvolti: quello del recedente ad ottenere un’equa liquidazione, quello degli altri soci ad acquistare le azioni ad un prezzo non superiore rispetto al valore effettivo e quello dei creditori di evitare un depauperamento del patrimonio della società.
All’esito di approfondi studi, l’elaborazione dottrinaria è giunta alla conclusione che l’unico strumento veramente in grado di bilanciare i numerosi interessi in gioco è costituito dal valore di disinvestimento, affermandosi che il socio ha diritto ad un rimborso pari al risultato economico attuale dell’investimento a suo tempo effettuato[3].
In forza di siffatte considerazioni è possibile dare una risposta dalla problematica attinente alle linee perimetrali della discrezionalità riconosciuta agli amministratori nella determinazione della quota spettante al socio recedente; difatti, essi sono titolari di una discrezionalità non assoluta, bensì limitata poiché possono utilizzare, tenendo conto delle specifiche peculiarità del caso di specie, un qualsiasi metodo di valutazione (finanziario, patrimoniale o reddituale), purché sia in grado di assicurare il valore di disinvestimento.
Non sussiste, inoltre, alcuna gerarchia tra i vari metodi utilizzabili[4], in quanto gli amministratori sono solamente tenuti ad individuare il criterio che al meglio soddisfa l’obbiettivo di giungere ad una valutazione equa delle azioni[5].
In conclusione, il valore di recesso nelle società non quotate deve esprimere il valore intrinseco pro quota della società che l’azionista ha contribuito a formare alla data di valutazione; tale valore deve, dunque, rappresentare ciò a cui l’azionista rinuncia con l’uscita dalla società, ovvero l’importo corrispondente al risultato attuale dell’investimento.
[1] Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 recante "Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366”
[2]Cfr. M. Rossi, Sulla valutazione delle azioni in caso di recesso, in Corr. Giur., 2013, pag. 1405.
[3] Cfr. M. Maugeri, Partecipazione sociale, quotazione di borsa e valutazione delle azioni, in Riv. dir. comm., 2014, I, pag. 184; G. Ferri, Le società, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da Vassalli, X, 3, Torino, 1987, pag. 193.
[4] Cfr. V. Di Cataldo, Il recesso del socio di società di capitali, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, III, Torino, 2007, pag. 235.
[5] Cfr. M. Caratozzolo, Criteri di valutazione delle azioni del socio recedente nelle s.p.a. (II parte), in Società, 2005, pagg. 1213 ss.