***
L’emergenza sanitaria da COVID-19 che dagli inizi del 2020 si è abbattuta con violenza sul nostro paese ha fatto sorgere spontanea una riflessione sull’adeguatezza del sistema organizzativo delle strutture sanitarie. E ciò non solo per l’altissimo prezzo in termini di vite umane pagato, ma anche per la drammatica eccezionalità dell’evento che ha inevitabilmente colto impreparati tutti gli operatori del settore.
È chiaro che l’enorme sproporzione registrata tra richieste di assistenza e disponibilità effettiva di risorse, nonché l’assoluta novità del virus, non potranno non essere considerate nel giudizio volto all’accertamento della responsabilità civile della struttura sanitaria: è probabile, infatti, che – alla luce degli accadimenti dell’ultimo anno – il contenzioso in tema di responsabilità sanitaria trovi nuova linfa, soprattutto con riferimento ai casi di infezioni nosocomiali da COVID-19.
Diventa fondamentale capire, dunque, se e in che modo, a fronte di infezioni ospedaliere non contratte in un contesto di “normalità”, i tradizionali modelli della responsabilità civile sanitaria, potranno essere valutati e applicati nelle aule di Tribunale.
L’infezione nosocomiale contratta in un contesto di “normalità’”
L’infezione nosocomiale, tradizionalmente, rientra nel novero di quei “danni” addebitabili alla struttura sanitaria ex art. 7 della legge Gelli-Bianco n. 24/2017 e art. 1218 cod. civ. per fatto proprio (e non dei propri ausiliari), e – più precisamente – per aver violato il “contratto di spedalità” concluso con il paziente al momento del ricovero, mancando così di garantire la sicurezza delle cure.
Tali infezioni sono collegate alla permanenza del soggetto all’interno della struttura e, nonostante – per la loro elevata frequenza – siano prevedibili, esse sono difficilmente evitabili.
Pertanto, quando il paziente dimostri di aver contratto l’infezione presso la struttura, a questa – per andare esente da colpa – non è sufficiente dimostrare di aver attuato specifici controlli volti ad evitare il contenimento delle infezioni nosocomiali, ma la struttura deve dimostrare altresì di aver adottato tutte le misure necessarie per evitare il contagio.
La situazione di impedimento oggettivo creata dall’epidemia di COVID-19
Dunque, se si considera che la pandemia di COVID-19 – in numerosi casi, soprattutto nella sua fase più acuta – ha reso pressoché impossibile per le strutture garantire uno standard di cure e servizi adeguato, appare quantomeno opportuno che i Giudici, eventualmente chiamati a pronunciarsi sulla responsabilità di una struttura per l’infezione da COVID-19 contratta da un paziente durante il ricovero, valutino attentamente se non sussista, nel caso di specie, una causa di estinzione dell’obbligazione assunta dalla struttura, dovuta all’impossibilità della prestazione per causa non imputabile a quest’ultima (v. artt. 1218 e 1256 cod. civ.).
Qualora, infatti, la struttura sanitaria dimostri di essersi trovata in una situazione di impedimento oggettivo, messa in ginocchio da fattori quali:
- l’assoluta novità del virus,
- l’assenza di linee guida e buone prassi ad hoc per la gestione dei pazienti COVID-19 (soprattutto nella prima fase dell’emergenza sanitaria),
- l’insufficienza di personale medico/infermieristico, di d.p.i., di posti letto e di medicinali, nonché
- la ridotta disponibilità di tamponi,
potrebbe andare esente da colpa, per impossibilità oggettiva di erogare la prestazione assistenziale cui era tenuta.
La causa di forza maggiore, infatti, costituisce tradizionalmente un limite alla responsabilità contrattuale del debitore.
La struttura convenuta in giudizio dovrà comunque fornire la specifica prova dell’attuazione di tutte le misure volte alla riduzione del rischio di contrarre il virus implementabili nel caso concreto, con i mezzi e le risorse a disposizione, considerato lo stato della letteratura scientifica disponibile in quel momento. È evidente, dunque, che sarà più facile per una struttura fornire la prova liberatoria con riferimento a contagi avvenuti in un contesto di assoluto caos, quale quello che ha colto alla sprovvista i presidi sanitari di tutta Italia agli inizi della pandemia, piuttosto che a quelli occorsi a seguito della cd. “prima ondata”.
Per ovvie ragioni, neutralizzare il rischio di soccombenza in un eventuale contenzioso in cui sia convenuta una RSA che ha accolto pazienti affetti dal virus, pare più in salita. E, infatti, la colpa di una struttura di questo tipo è difficile da escludere, poiché alla RSA – di per sé destinata ad ospitare soggetti estremamente fragili – è richiesta una maggiore attenzione nell’adozione di tutte le misure necessarie a impedire contagi al suo interno.
Scenari alternativi al sistema della responsabilità civile e la fuga delle assicurazioni dal mercato della R.C. sanitaria
Fermo quanto sopra detto, non manca chi auspica l’introduzione da parte del legislatore di un sistema standardizzato di indennizzo per il ristoro dei “danni da COVID-19”, analogo a quello previsto per i danneggiati in via permanente da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati, nonché per le vittime del terrorismo e della mafia.
In ogni caso, il rischio, in assenza di un quadro giuridico di riferimento sufficientemente definito, è quello che – a fronte dell’impossibilità di effettuare un adeguato calcolo del rischio e in assenza di un obbligo assicurativo bilaterale in campo sanitario – le compagnie assicurative abbandonino definitivamente il mercato delle polizze dalla R.C. sanitaria.