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L'art. 28 D.Lgs. n. 198/2006 (cd. Codice delle pari opportunità) prevede il divieto di discriminazione retributiva tra uomini e donne: “1. È vietata qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale. 2. I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne ed essere elaborati in modo da eliminare le discriminazioni”.
Le donne guadagnano circa il 10% in meno degli uomini
Nonostante questa disposizione, il dato di fatto incontrovertibile è la presenza – in Italia e in generale all'interno dell'Unione Europea – di una significativa differenza di salario tra uomini e donne (cd. gender pay gap). Il lavoro svolto dalle donne è valutato meno rispetto a quello svolto dagli uomini: secondo i calcoli dell'Istat, le prime hanno una retribuzione oraria media di € 15,20, mentre i secondi di € 16,20.
Il divieto previsto dall'art. 28 D.Lgs. n. 198/2006 mira a eliminare questo differenziale di genere in cui a parità di mansioni o quantità/qualità del lavoro, l'uomo percepisce comunque una retribuzione più elevata. La norma prescrive che sia assicurata parità di trattamento, senza individuare però in concreto il trattamento applicabile o le misure da adottare.
L'ambito d'applicazione del divieto di discriminazione retributiva
Secondo consolidata giurisprudenza (a partire da Cass. S.U. n. 6030/1993), nel nostro ordinamento non esiste un principio di parità di trattamento contrattuale e di retribuzione dei lavoratori a parità di mansioni, al di là dei minimi salariali previsti dalla contrattazione collettiva. Le parti, nell'esercizio della propria autonomia, possono dunque stabilire trattamenti retributivi particolari non estesi alla generalità dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni. È ragionevole ritenere che l'ambito applicativo privilegiato del divieto di discriminazione retributiva non sia tanto quello del salario di base, che nel nostro sistema è stabilito dalla contrattazione collettiva; ma quello dei trattamenti accessori che vengono pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro in aggiunta ai minimi, come ad esempio aumenti retributivi, indennità integrative dello stipendio, fringe benefits e premi.
L'assolutezza del divieto esclude ogni valutazione di merito?
I trattamenti accessori, laddove differenziati, non possono essere considerati di per sé contrari al divieto di discriminazione sancito dall'art. 28 del Codice delle pari opportunità. Infatti, se ragionando per assurdo si ipotizzasse l'assolutezza della parità salariale tra uomo e donna escludendo qualsiasi altro criterio ai fini della determinazione della retribuzione, si verificherebbe una disparità al contrario: non si terrebbe conto delle variegate situazioni lavorative concrete, che nella realtà cambiano da settore a settore, da azienda ad azienda, da mansione a mansione. Una situazione di questo tipo apparirebbe irragionevole e addirittura contraria ai principi costituzionali, nonché ai principi del Codice Civile in materia di autonomia e poteri organizzativi del datore di lavoro.
Le disparità di trattamento retributivo da ritenersi illecite e vietate sono quelle determinate solo da ragioni di genere, ossia che trovano la loro unica spiegazione nell'appartenenza di un lavoratore ad un sesso piuttosto che all'altro.
Un trattamento differenziato può essere invece giustificato se sorretto da ragioni oggettive, ricollegabili a dati dimostrabili, obiettivi raggiunti, benefici apportati, etc. Il merito, desumibile anche dai risultati ottenuti, appare il criterio cardine per la valutazione della prestazione potendo giustificare la determinazione di trattamenti retributivi ad hoc, senza che questi ultimi risultino discriminatori. Per evitare forme di discriminazione di genere, le scelte aziendali devono essere sorrette da principi comuni per tutti i lavoratori: il sistema di politica retributiva deve fondarsi su sistemi di valutazione neutri sotto il profilo del genere, nonché su criteri e obiettivi che non penalizzino, neanche indirettamente, le donne rispetto agli uomini.
Uno sguardo al futuro
La parità retributiva è uno degli obiettivi della Direttiva (UE) 2023/970 del 10 maggio 2023, che deve essere recepita dagli Stati membri entro il 7 giugno 2026. La Direttiva è “volta a rafforzare l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro, o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva e i relativi meccanismi di applicazione”. La sua applicazione potrebbe comportare sostanziali cambiamenti normativi, con nuovi obblighi per le aziende circa trasparenza delle retribuzioni, modalità di determinazione dei salari e conoscenza del sistema retributivo aziendale.