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Il contraddittorio endoprocedimentale, in ambito tributario, realizza la partecipazione del contribuente all’attività di accertamento fiscale e consiste nel diritto del destinatario del provvedimento di poter addurre le proprie ragioni in ordine agli elementi che l’Amministrazione finanziaria intende porre a fondamento dell’atto impositivo.
L’Amministrazione dovrà, pertanto, valutare attentamente le osservazioni del contribuente e motivare congruamente le ragioni per cui non ha ritenuto di accogliere, in tutto o in parte, le deduzioni proposte.
A differenza del procedimento amministrativo, in cui il contraddittorio è stabilito in via generale, nell’ordinamento tributario manca una norma che sancisca l’obbligatorietà del rispetto di tale principio in maniera diffusa.
In proposito, dottrina e giurisprudenza si sono chieste se l’esistenza di un tale obbligo generale possa desumersi dal complesso delle discipline relative ai singoli tributi, o se, viceversa, il rispetto del contraddittorio rimanga rigorosamente circoscritto alle esclusive ipotesi normativamente previste.
L’immanenza di tale principio nel diritto interno potrebbe ricavarsi dal collegamento fra gli artt. 97 Cost., 10, comma 1 e 12 dello Statuto del contribuente. Il combinato disposto di queste norme suggerisce, infatti, che esiste un dovere di collaborazione che ha come destinatario non soltanto il contribuente, ma anche l’Amministrazione finanziaria e, se si vuol dare un senso a tale dovere, esso non può che essere quello di obbligare l’Amministrazione a sentire il contribuente prima di emanare un atto lesivo (qual è, per definizione, l’atto d’imposizione) nei suoi confronti.
A ben vedere, però, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, mentre inizialmente sembrava aver riconosciuto un generale diritto al contraddittorio per il contribuente, attualmente pare aver fatto un passo indietro, mettendo seriamente in dubbio l’immanenza del principio generale del contraddittorio endoprocedimentale tributario.
Contraddittorio e verifiche fiscali
Particolare rilievo, nell’indagine in esame, va riconosciuto all’art. 12, comma 7, L. 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto del Contribuente), in materia di accertamenti conseguenti a verifiche fiscali effettuate presso i locali del contribuente.
Tale disposizione prescrive che “nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L'avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.
Viene, dunque, previsto un limite temporale prima del quale l’atto impositivo non può e non deve essere emanato, in modo da permettere al contribuente di esercitare in modo completo il proprio diritto di difesa, presentando ad esempio memorie e osservazioni. In caso contrario l’atto impositivo è nullo.
Il mancato rispetto dei 60 giorni è consentito solo qualora vi siano particolari ragioni di urgenza, espressamente indicate nell’atto impositivo.
Tale previsione normativa non appare riferita dal legislatore ad alcun tipo di tributo e, pertanto, deve ritenersi neutra.
La questione che si è posta è stata quella di comprendere se l’obbligo del contraddittorio preventivo vige solo in materia di accertamenti eseguiti tramite accesso presso la sede del contribuente (quindi tramite “verifica”) o anche in tema di indagini c.d. “a tavolino”.
La posizione della Cassazione
Inizialmente, con la sentenza n. 18184/2013, le SS.UU. avevano stabilito che l’inosservanza del termine dilatorio di 60 giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus. Detto termine è infatti posto a garanzia del pieno dispiegarsi del diritto al contraddittorio, il quale, tuttavia, è previsto dall’art. 12, comma 7 solo per il contribuente che abbia subito un accertamento conseguente ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita la sua attività imprenditoriale o professionale.
Successivamente le medesime SS.UU., con le note sentenze “gemelle” nn. 19667 e n. 19668 del 2014, sembravano aver fatto un passo in avanti, sancendo un vero e proprio principio generale del contraddittorio.
In particolare, la Cassazione ha ritenuto che incomba sull’Amministrazione finanziaria un generale obbligo di attivare sempre il contraddittorio preventivo rispetto all’adozione di un provvedimento che possa incidere negativamente sui diritti e sugli interessi del contribuente. In caso contrario l'atto è nullo.
Tuttavia, con la più recente sentenza n. 24823/2015, le Sezioni Unite della Cassazione hanno fatto “dietrofront”, limitando nuovamente l’applicazione del contraddittorio.
Nel nostro ordinamento non esiste un obbligo generalizzato per l’Amministrazione di attivare il contraddittorio prima dell’emissione dell’atto, salvo non sia espressamente previsto per legge. Si tratta, infatti, di un principio di derivazione comunitaria e, pertanto, applicabile solo ai tributi “armonizzati”.
In tema di obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale non vi sarebbe, quindi, coincidenza tra diritto interno e diritto comunitario: per i tributi “non armonizzati”, l’obbligo per il fisco di attivare il contraddittorio sussiste solo ove previsto da una specifica norma di legge; il tenore letterale dell’art. 12, comma 7, sembrerebbe comportare l’applicazione delle garanzie ivi previste solo agli accertamenti effettuati presso la sede del contribuente e, dunque, per le verifiche “a tavolino” non vi sarebbe la nullità dell’atto impositivo emesso dall’Agenzia in mancanza del rispetto di tali garanzie. Viceversa, nel campo dei tributi “armonizzati”, primo fra tutti l’IVA, opera la clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale che, in caso di violazione, comporta la nullità del conclusivo atto impositivo. La garanzia del contraddittorio si applicherebbe sia in caso di verifiche con accesso, sia per i controlli “a tavolino”, dovendo tuttavia il contribuente dimostrare che, qualora fosse stato attivato il predetto contraddittorio, il procedimento avrebbe potuto comportare soluzioni differenti.
Sulla base di tale ultima pronuncia a SS.UU., la Corte di Cassazione, anche di recente, ha negato al contribuente tale diritto (si vedano sent. nn. 20799/2017, 21071/2017 e ord. n. 13490/2019).
I recenti sviluppi normativi
Il decreto-legge n. 35 del 2019 (c.d. “decreto crescita”), ha introdotto, a partire dal primo luglio 2020, l’obbligo per gli uffici di notificare ai contribuenti, prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, un invito al contraddittorio.
In particolare, gli uffici, ove non sia stato rilasciato un verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, dovranno notificare un invito a comparire per l’avvio del procedimento di definizione dell’accertamento. In difetto, l’accertamento è invalido, ma solo se con l’impugnazione il contribuente dimostri le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato. In caso di mancata adesione, invece, l’avviso di accertamento è specificamente motivato in relazione ai chiarimenti forniti dal contribuente nel corso del contraddittorio.
Viene, inoltre, previsto che, qualora tra la data di comparizione indicata nell’invito a comparire e quella di decadenza dell'amministrazione dal potere di notificazione dell'atto impositivo intercorrano meno di novanta giorni, il termine di decadenza per la notificazione dell'atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, di centoventi giorni.
In sostanza, la norma introdurrebbe un obbligo generalizzato del contraddittorio prima dell’emissione dell’avviso di accertamento. Si attendono, pertanto, nuovi sviluppi giurisprudenziali alla luce della nuova normativa.