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Il software: la creatività dei codici
Tutti sanno cos’è un “software”. Certo, nell’era dei mobile device, si parla più di “app”.
Legalmente non vi sono differenze: sono “programmi per elaboratore”, tutelati dall’art. 1, comma 2, dall’ art. 2, comma 2, n. 8), e dagli artt. 64-bis e ss. della L. 633/1941 (legge sul diritto d’autore – L.d.A.).
Può sembrare strano che una tecnologia sia disciplinata in una normativa per le opere creative. È vero; ma c’è un motivo.
Accedere alla tutela autorale è più facile che ottenere altre forme di protezione, come quella brevettuale. Basta un carattere creativo, pur minimo, dell’opera. Un’invenzione, invece, è brevettabile solo se non ricompresa in alcun modo nello stato della tecnica, se sottende un’attività inventiva e se suscettibile di applicazione industriale.
Quando i legislatori dovettero disciplinare la questione, negli anni ’70, il discrimen fu questo; il facile ottenimento della tutela autorale avrebbe consentito a più operatori di avere asset IP monetizzabili e circolarizzabili e, dunque, di entrare nel mercato creando concorrenza.
Una motivazione concorrenziale, dunque, che ha tendenzialmente portato a escludere la brevettazione del software[1].
La tutela autorale del software – che consiste in diritti di utilizzazione esclusivi – si basa sul fatto che questo è considerato un’“opera letteraria” (Art. 1, comma 2 L.d.A.)[2]. Del mondo letterario la legge riprende alcune logiche: l’art. 2 L.d.A. tutela i software in “in qualsiasi forma […] espressi” e purché siano “[…] originali quale risultato di creazione intellettuale […]”; la protezione non si estende alle “idee e principi che stanno alla base di qualsiasi elemento di un programma […]”, neanche alle interfacce.
I programmi per elaboratore sono protetti in quanto linguaggio; per l’esattezza, linguaggio di codici:
- codici sorgente (source codes): quelli con cui gli sviluppatori si esprimono, si comprendono fra di loro e, nel concreto, creano il software; e
- codici oggetto (object codes): quelli destinati al computer, guidandone l’esecuzione dando le istruzioni per far funzionare il software[3].
La tutela “linguistica” dei codici è una fictio; i programmi non sono protetti per la creatività che esprimono, ma per ciò che fanno.
Eppure, è grazie all’esistenza di diritti di esclusiva su questi codici – che ne hanno determinato la disponibilità giuridico-economica – che i software hanno potuto circolare e far evolvere la tecnologia. Lo strumento principale per questo è stato, è, e continua ad essere il contratto di licenza.
La licenza: la forza di un contratto malleabile
Tecnicamente, la licenza è un contratto atipico (in Italia, ex art. 1322 c.c.), a forma libera, con cui il titolare di un diritto IP, pur conservandone la titolarità, consente a un terzo di farne degli usi.
Funzionalmente, però, c’è di più. La licenza è duttile: può riguardare uno o più diritti esclusivi, coprire più o meno territori, autorizzare usi in via non esclusiva, semi-esclusiva o esclusiva (cioè non consentendoli più al titolare stesso), essere a titolo oneroso o gratuito. Dà al titolare dei diritti estrema libertà, garantendo la proprietà.
Software libero e creative commons (oltre il software)
Storicamente, dunque, il diritto d’autore e il suo sfruttamento con licenza hanno creato il mercato del software. Al contempo, alcuni sviluppatori ritenevano che la proprietà intellettuale fosse un ostacolo per la neonata scienza informatica.
Nel 1985 nacque la Free Software Foundation, diffondendo la filosofia del copyleft (il diritto di lasciar copiare, in opposizione al copyright) e dell’open source. Lo strumento della “rivoluzione” fu proprio una licenza, la General Public License[4]; un contratto a logiche IP ribaltate. Si sfruttarono vincoli contrattuali per “aprire” i diritti di esclusiva: chi aderiva al progetto avrebbe potuto accedere a sorgenti di terzi per sviluppare, ma avrebbe dovuto a sua volta rilasciare i propri sorgenti.
Il movimento del software libero fu d’ispirazione; in altri ambiti creativi il ribaltamento della logica delle esclusive autorali sfruttando contratti di licenza destava interesse. Nel 2001 sono così nate le licenze creative commons. Fortemente basate sul copyleft, sono modelli modulari di licenze utilizzabili liberamente, per consentire a indefiniti licenziatari di usare un’opera a condizioni predefinite.
Nello specifico, combinano quattro aspetti dello sfruttamento di un’opera:
- il rispetto della paternità;
- la possibilità di farne usi commerciali;
- la possibilità di fare modifiche; e
- le modalità di condivisione.
Il risultato delle possibili combinazioni sono sei licenze[5] fra cui scegliere, con cui un titolare può decidere di disciplinare la circolazione della propria opera.
Non solo; nell’ambito creative commons è anche possibile adottare contrattualmente una formale rinuncia ai diritti d’autore.
Conclusioni
La storia del software è una storia industrialistica; la proprietà intellettuale ne è il protagonista e il nemico al tempo stesso. Certo, la prospettiva cambia a seconda dell’approccio filosofico di riferimento. È però innegabile che tramite le privative i titolari possono decidere di lasciare a terzi meno libertà (copyright classico) o più libertà (copyleft); e lo strumento è – e non può che essere – quello contrattuale, figlio dell’autonomia e della libertà delle parti.
[1] Oggi in Italia l’art. 45, comma 2, lett. b) e comma 3 del D. Lgs. 30/2005 (Codice della Proprietà Industriale) statuisce che “non sono considerate invenzioni […] i programmi per elaboratore” e che ne è esclusa la brevettabilità “considerati in quanto tali”. Ciò vuol dire che sono teoricamente brevettabili i software che, soddisfacendo tutti i requisiti di brevettabilità, non sono “considerati in quanto tali”; ossia quelli che rivendicano effetti tecnici oltre la normale interazione programma-computer. Il che è piuttosto difficile.
[2] Ciò trova la sua fonte a livello internazionale in quanto stabilito dalla Convenzione di Berna sulla protezione delle opere letterarie ed artistiche, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 399/1978.
[3] Per delle interessanti riflessioni, anche di natura storica, sulla bontà e l’opportunità logica dell’assimiliazione del codice oggetto a un linguaggio tutelabile a livello autorale, v. Giovanni Guglielmetti, L' invenzione di software, Giuffrè, 1997.
[4] Che, nella sua ultima versione, è disponibile qui: https://www.gnu.org/licenses/gpl-3.0.html
[5] Disponibili qui: https://creativecommons.it/chapterIT/index.php/license-your-work/